Di seguito ripropongo un mio articolo, pubblicato sul numero 8 della rivista Scienze sociali di dicembre 2013. Così, chi avesse tempo e voglia di leggerlo, può trovarlo anche nel mio blog :-).
Nell’anno che ci apprestiamo a vivere, il 2014, sono trascorsi esattamente vent’anni da quel lontano 1994, quando Silvio Berlusconi decise di “scendere” nell’agone della politica italiana, dando così inizio a quello che per il nostro Paese sarebbe stato una sorta di nuovo “ventennio”.
Tralasciando gli effetti e le conseguenze che questo suo impegno ha apportato alla vita politica italiana, in quest’articolo analizzerò il forte impatto e il cambiamento in profondità nella cultura della nostra società, stravolgendola, anche perché è evidente come tale cambiamento non sia legato ormai solo alla parabola di un singolo individuo, ma si sia estremamente e profondamente radicato nella cultura comune e condivisa.
Silvio Berlusconi potrà, forse, uscire definitivamente di scena dalla ribalta della politica italiana, ma il berlusconismo culturale, che ha permeato in profondità la nostra società, sarà molto duro a morire, nella misura in cui ha eroso molti e stratificati aspetti della cultura.
Si pensi in primo luogo alla rappresentazione della donna, che ha fortemente contribuito a svalutare, accentuando e promuovendo le caratteristiche di un certo modello estetico femminile, svalutando e riducendo ogni donna al suo prezzo, ovvero facendo passare l’idea che la donna fosse mero oggetto di trastullo e piacere, o meglio ancora merce di scambio. Capacità e competenze, in questa visione declinata al berlusconismo culturale, sono un surplus inutile.
Basti pensare alle sue battute gradasse, volgari e di cattivo gusto, indirizzate prima alla Bindi, che “ è più bella che intelligente”, poi a una ragazza che lamentava le enormi difficoltà dei giovani nella ricerca di lavoro; le consigliò di sposare un uomo ricco per farsi “mantenere”… e si potrebbe andare avanti ad oltranza con esempi simili, che sviliscono la figura della donna e il suo ruolo nella nostra società.
Questo tipo di approccio al rapporto uomo-donna è fortemente dannoso, perché porta a considerare la donna come un orpello con funzione solo decorativa, o come il trofeo delle battute di caccia del maschio conquistatore, e a ridurre la relazione maschile/femminile allo stereotipato binomio donna-bella/uomo-ricco. O meglio ancora a ridurre la donna alla sua ombra, illuminata solo dalla luce riflessa del suo uomo, incapace di autodeterminazione e autorealizzazione, di conquistare uno spazio solo grazie alle competenze acquisite e perché meritevole.
Senza deteriori catastrofismi, ma osservando con realismo le sequenze di cronaca quotidiana, capiamo bene i rischi di un cultura maschilista e prevaricatrice e i suoi effetti devastanti, nella misura in cui ogni anno registriamo un numero altissimo di femminicidi. La “questione maschile” (e non femminile, appunto), affondando le sue radici in dinamiche di natura politico-culturale, è ancora ben lungi dall’essere risolta.
E veniamo ad un altro aspetto precipuo del berlusconismo culturale, una relazione reificante e dissociata, che si va sempre più radicando, tra l’effimero della rappresentazione e l’effimero della sua sostanza, tra la rappresentazione di un mondo luccicante e patinato a reti unificate RAI e Mediaset e il pallido simulacro del mondo reale, manipolato a piacimento con il supporto dei mass media, affermando tutto ed il contrario di tutto, in un equilibrio instabile in cui ormai si fa sempre più fatica a distinguere tra realtà e finzione.
Il Grande Fratello, Uomini e Donne, Veline, Amici, sono i simulacri stereotipati di modelli culturali da emulare che permeano le culture giovanili. Allora, ecco il topos della Velina, del Tronista, del concorrente del Grande Fratello, in cui proiettare e risolvere aspirazioni e progetti di vita, il cui unico merito e valore assoluto è saper occupare sapientemente l’inquadratura tv. Questo è il paradigma cultural-televisivo in cui ci muoviamo, il “nuovo” che avanza e che ha spiazzato sia le grandi narrazioni del Novecento che le TV pedagogiche della seconda metà del XX secolo.
E naturalmente i simulacri patinati di felicità, tanto più convincenti quanto più ignoranti, sono il modello da emulare per il successo, la carriera, le relazioni m/f: l’ambizione e la pienezza del sé non derivano più da una laurea conseguita con merito, dall’impegno profuso nello studio meticoloso. Il miraggio è come appare, luccicante, specchiato e patinato.
E così è passata l’idea che bastasse costruire un look convincente e avere una discreta propensione a stare davanti alle telecamere, per conseguire un discreto successo, nell’ottica di un carpe diem oraziano in salsa moderna, senza più alcuna progettualità per il futuro, estremamente dannoso perché porta all’approssimazione, all’improvvisazione e alla totale assenza di competenze che, viceversa, sono una condizione sine qua non nell’ambito di un mercato del lavoro sempre più competitivo.
In conclusione, dunque, solo con il definitivo superamento di simulacri e stereotipi del berluscononismo, potremo dire di essere usciti finalmente dal secondo “ventennio” cultural-televisivo, ma sarà un’operazione delicata, che richiederà del tempo perché, purtroppo, gli effetti negativi sulla nostra società sono molti e visibili, e potranno essere emendati solo con un lungo e paziente lavoro di rieducazione politica e culturale.